SUBITO DOPO L'8 SETTEMBRE
CREPUSCOLO DI SANGUE (da)
Pietro Caporilli
LA LIBERAZIONE DI MUSSOLINI
Gli italiani hanno sempre avuto una predilezione
a scarabocchiare sui muri le proprie opinioni. Gli “evviva” e gli “abbasso“
esplosi il 25 luglio 1943 con la caduta del Regime Fascista subirono una
violenta recrudescenza con la resa dell’8 settembre. L’antifascismo di
tutte le colorazioni sfogò la paura troppo a lungo repressa, con
truculenti proclami e più ancora col gesso e con la vernice.
Nelle sacrestie e nelle soffitte ove, ad ogni buon
conto, la sera stessa dell’annuncio dell’armistizio gli esponenti dei partiti
antifascisti s’erano nuovamente e velocemente occultati, cominciarono a
tuonare i cannoni della retorica. Evocando lo spirito dei Vespri Siciliani
e delle Pasque Veronesi in nome di un secondo Risorgimento della Patria,
il cosiddetto “poppolo“ veniva chiamato a raccolta contro il “tedesco invasore“
e i suoi alleati fascisti. Nel pomeriggio del giorno 10 settembre uscì
il primo e l’ultimo numero di un quotidiano di ispirazione socialcomunista
“Il Lavoro Italiano“ che chiamò addirittura in ballo Garibaldi e
tutto il Risorgimento con un titolo a pagina intera: “Tutta la nazione
combatte per la pace“. Balle!! Nessuno si mosse. A Roma furono distribuiti
ad opera del generale Carboni - quello del S.I.M. ( Servizio Informazioni
Militari ) che l’8 settembre scappò con la cassaforte del suo ufficio
e non riuscì a raggiungere il Re e Badoglio sulla via di Pescara
- alcune centinaia di fucili. Nessuno li sentì sparare e nella scaramuccia
di Porta San Paolo i granatieri se la dovettero sbrigare da soli contro
i tedeschi che erano già padroni della situazione in tutto il paese.
Nessun Masaniello aveva raccolto gl’incitamenti barricadieri dell’antifascismo
e le nutrite schiere dei popolani all’assalto delle mitragliatrici nazifasciste
rimasero solo nella fantasia dei conventuali.
L’ “Agenzia Stefani“ per la stampa, la sera
del 10 settembre in una nota fotografò la situazione mettendo particolarmente
in rilievo l’atteggiamento del popolo “scettico, freddo, scanzonato ed
incredulo e deciso a rimanere in margine agli avvenimenti che pur strappano
le carni della Patria, con una mentalità ed un atteggiamento non
soltanto di diffidenza, di sfiducia di ostilità generale, ma persino
con un assenteismo, quasi un disinteresse alla fase attuale della sua storia“.
Le bordate della retorica antifascista continuavano tuttavia imperterrite.
Non v’era più dubbio che si trattava di cannoni che sparavano dalla
culatta.
La tragica farsa cessò la mattina del 13
settembre quando gl’italiani si svegliarono con la sensazionale notizia
che il giorno precedente Mussolini era stato liberato dalla prigione del
Gran Sasso. Radio e giornali diffusero il comunicato straordinario del
Quartier Generale di Hitler che diceva testualmente: “Reparti di paracadutisti
e di truppe di sicurezza germanici, unitamente a elementi delle SS., hanno
condotto a termine una operazione per liberare il Duce che era tenuto prigioniero
dalla cricca dei traditori. L’impresa è riuscita. Il Duce si trova
in libertà. In tal modo è stata sventata la sua progettata
consegna agli Anglo-Americani da parte del governo Badoglio“. Consegna
prevista da una clausola particolare sulla resa incondizionata dell’ Italia.
I particolari di questa straordinaria avventura
sono noti. Dopo l’arresto in casa del re alle ore 17 del 25 luglio 1943,
Mussolini venne condotto nella caserma “Podgora“ e da qui alla Caserma
Allievi Carabinieri di via Legnano. La sera del 27,scortato dal Questore
di Roma Polito, venne condotto a Gaeta ove il Prigioniero venne preso in
consegna dall’Ammiraglio Franco Maugeri - tristemente noto per essere stato
riconosciuto reo di alto tradimento contro la Patria in armi - che a bordo
della “Persefone“ lo condusse nell’isola di Ponza. Qui Mussolini rimase
dieci giorni rinserrato in una squallida bicocca ove prima era stato custodito
un ras abissino. Per alcune notti dormì su una rete metallica priva
di materasso.
La notte del 7 agosto venne trasferito con l’ex
cacciatorpediniere francese “Pantera“, e sempre a cura dell’ineffabile
ammiraglio, a La Maddalena ove un altro ammiraglio, Bruno Brivonesi - anch’egli
celebre per aver avuto la straordinaria abilità di farsi affondare
da tre caccia inglesi un intero convoglio di sette piroscafi diretti in
Africa e due delle dodici navi da guerra della scorta - lo ebbe in custodia
fino alla mattina del 28 agosto allorchè in aereo venne trasferito
a Campo Imperatore su Gran Sasso. In questa che Mussolini stesso definì
“la più alta prigione del mondo“, rimase fino alle ore 14 del 12
settembre giorno in cui venne liberato.
Com’è facile intuire, la sostituzione e l’arresto
di Mussolini produssero nel mondo una enorme impressione. In Germania si
era inoltre legittimamente preoccupati dell’episodio soprattutto perché
esso non lasciava presagire nulla di buono per l’ulteriore atteggiamento
dell’Italia nel conflitto.
Nella mente di Hitler il tradimento della monarchia
italiana era già scontato e le parole con le quali affidò
al Capitano delle SS Otto Skorzeni la sera stessa del 26 luglio del 1943,
l’incarico di liberare Mussolini, hanno un amaro sapore di profezia: “Desidero
affidarle una missione della più alta importanza. Il mio amico Mussolini,
il nostro fedele compagno di lotta, è stato tradito dal re ed arrestato
ieri dai suoi compatrioti. Ora io non posso e non voglio abbandonare nel
momento del pericolo il più grande di tutti gli italiani.... la
personificazione dell’ultimo Cesare romano “.
LA PRIGIONE DEL GRAN SASSO
Otto Skorzeni, comandante di un reparto speciale
di guastatori dipendente dal Servizio Segreto dell’Esercito, si gettò
a capofitto nell’avventura. Partì subito per l’Italia con cinquanta
uomini sceltissimi della sua unità che sistemò nei pressi
di Roma, a Pratica di Mare, in attesa dell’azione. Poi si pose la domanda
: - Dove sarà Mussolini ? Questo interrogativo al quale bisognava
dare una risposta prima di stabilire un qualsiasi piano atto a portare
a felice compimento l’impresa. Il fitto mistero con cui il nuovo capo del
Governo Maresciallo Pietro Badoglio aveva circondato il Prigioniero temendo
appunto un colpo di mano, rendeva estremamente difficili le indagini. Difatti
i continui cambiamenti di prigione - Ponza, La Maddalena, Gran Sasso -
erano in relazione alle ricerche tedesche: tutte le volte che Skorzeni
scopriva il nascondiglio, Mussolini veniva spedito in altro luogo e la
lotta tra carcerieri e liberatori riprendeva più accanita che mai.
A La Maddalena Skorzeni fu sul punto di sferrare l’attacco alla Piazzaforte,
mercè l’ausilio di notevoli forze tedesche dislocate in Corsica,
proprio la mattina del 28 agosto quando Mussolini aveva già lasciato
la villa Weber. Fu per puro caso che Skorzeni apprese della partenza avvenuta
alle quattro del mattino e venne così scongiurata un’azione, certo
sanguinosa, che sarebbe andata completamente a vuoto.
Ma Skorzeni non si scoraggia. Ricomincia daccapo
con sempre maggiore entusiasmo. Le peripezie legate a questo lavoro di
investigazione e di ricerca sono veramente straordinarie. Come Dio volle,
con l’aiuto del caso che talvolta è il migliore ausilio nelle imprese
più disperate, viene scoperta la residenza del Gran Sasso.
Ricominciano allora i preparativi per l’attacco
ma le difficoltà si presentano, data l’altitudine e l’asperità
del terreno che consente ai carcerieri una facile difesa, praticamente
insormontabili. Tuttavia Skorzeni coadiuvato dal Generale Student che comanda
la divisione paracadutisti di stanza a Roma, non molla. L’ordine di Hitler
è perentorio e la posta è troppo grande.
Con un ricognitore studia dall’alto la zona del
Campo Imperatore ove è l’albergo che ospita Mussolini, fotografa
e compie minuti rilievi e si convince che l’elemento sorpresa - pregiudiziale
per impedire che il Prigioniero venga ucciso che tale è l’ordine
di Badoglio al Capo della Polizia Senise - è possibile solo dal
cielo essendo la funicolare, l’unico accesso via terra, fortemente controllata
e sorvegliata da reparti di carabinieri. Ma come attuare un simile progetto
se non c’è il minimo spazio per atterrare? Si tenterà con
gli alianti puntando decisamente su quei pochi metri quadrati di pendio
erboso che circondano l’albergo.
Difatti la mattina del 12 settembre la grande avventura
ha inizio. E’ interessante a questo punto seguire le fasi culminanti dell’attacco
attraverso le stesse parole di Skorzeni che decolla dall’aeroporto di Pratica
di Mare con nove alianti da trasporto a rimorchio di altrettanti aeroplani.
Partecipanti, oltre ai cinquanta uomini di Skorzeni, sessanta paracadutisti
della divisione Student e un generale italiano di polizia Soleti appositamente
“ prelevato “ perché con la sua divisa possa generare perplessità
negli attaccati.
IL RACCONTO DI SKORZENI
<<Al disotto di noi, già spunta il
nostro obiettivo: l’albergo montano del Gran Sasso. Su mio ordine, gli
uomini fissano i soggoli; poi impartisco l’ordine.
"Sganciate i rimorchi!".
Un istante dopo, un improvviso silenzio ci
avvolge: non si sente più che il fruscio del vento contro le nostre
ali. Il pilota inizia una larga virata e cerca ansiosamente quanto me,
il posto preciso previsto per il nostro atterraggio sul prato in pendio.
Un atterraggio su quella scarpata è impossibile,
me ne rendo conto immediatamente. Anche il pilota lo capisce e si volta
verso di me. Con i denti stretti, mi dibatto in un terribile conflitto
con la mia coscienza, ma la mia decisione è presa:
Atterraggio in picchiata vicino all’albergo più
che sia possibile!
Senza la minima esitazione, il pilota stringe il
volantino e derapa sull’ala sinistra, lanciandosi in picchiata folle. Il
fischiare del vento aumenta, diventa urlo, mentre la terra si avvicina
a vista d’occhio. Vedo il tenente Meier far scattare i freni di picchiata
- una violenta scossa, qualche cosa si schianta, si fracassa - istintivamente
chiudo gli occhi - un’altra scossa, ancor più forte - eccoci, abbiamo
toccato terra.
Già il primo dei miei uomini esce dalla porta,
il cui battente è stato divelto, e io mi lascio scivolar fuori con
le armi in mano. Siamo a quindici metri dall’albergo. Intorno a noi sono
le innumerevoli rocce che hanno fermato bruscamente il nostro aliante.
Dobbiamo aver percorso, scivolando a terra, tutt’al più una ventina
di metri prima di fermarci.
Vicino ad una piccola altura, proprio all’angolo
dell’albergo, sta diritto il primo carabiniere. Visibilmente colto da stupore
non si muove: cerca ancora di capire come abbiamo potuto cadere così
dal cielo. Mi slancio verso il fabbricato: mentre corro mi rallegro con
me stesso di aver ordinato formalmente ai miei uomini di non fare in alcun
caso uso delle armi, fino a che io stesso non abbia sparato il primo colpo.
Così la sorpresa sarà totale. Al mio fianco, sento ansare
i miei uomini. So che mi seguono e che posso contare su di loro.>>
A questo punto sarà interessante per il lettore
sapere cosa pensava e faceva Mussolini mentre intorno a lui gli avvenimenti
precipitavano
Ecco come egli stesso, impersonalmente, li riferisce
in "Storia di un anno":
<<Nelle prime ore del mattino del 12 una fitta nuvolaglia biancastra
copriva le cime del Gran Sasso, ma fu tuttavia possibile avvertire il passaggio
di alcuni velivoli. Mussolini sentiva che la giornata sarebbe stata decisiva
per la sua sorte. Verso mezzogiorno il sole stracciò le nubi e tutto
il cielo apparve luminoso nella chiarità settembrina.
Erano esattamente le 14 e Mussolini stava con le braccia
incrociate seduto davanti alla finestra aperta, quando un aliante si posò
a cento metri di distanza dall’edificio. Ne uscirono quattro o cinque uomini
in Kaki i quali postarono rapidamente due mitragliatrici e poi avanzarono.
Dopo pochi secondi altri alianti atterrarono nelle immediate vicinanze
e gli uomini ripeterono la stessa manovra. Altri scesero da altri alianti
Mussolini non pensò minimamente che si trattasse di inglesi. Per
prelevarlo e condurlo a Salerno non avevano bisogno di ricorrere a così
rischiosa impresa. Fu dato l’allarme. Tutti i carabinieri, gli agenti si
precipitarono con le armi in pugno fuori dal portone del rifugio schierandosi
contro gli assalitori. Nel frattempo il tenente Raiola irruppe nella stanza
del Duce intimandogli:
- Chiudete la finestra e non muovetevi!
Mussolini rimase invece alla finestra e vide che
un altro più folto gruppo di tedeschi occupava la funivia, era salito
e dal piazzale di arrivo marciava compatto e deciso verso l’albergo. Alla
testa di questo gruppo era Skorzeni. I carabinieri avevano già le
armi in posizione di sparo quando Mussolini scorse nel gruppo Skorzeni
un ufficiale Italiano, che poi - giunto più vicino - riconobbe per
il generale Soleti, del corpo dei metropolitani.
Allora Mussolini gridò nel silenzio che stava
per precedere di pochi secondi il fuoco:
"Che fate? Non vedete? C’è un generale
italiano. Non sparate; tutto è in ordine!"
Alla vista del generale italiano che veniva avanti
col gruppo tedesco le armi si abbassarono>>
La narrazione del cap. Skorzeni così prosegue:
<<Passiamo di corsa davanti al soldato sempre
sbalordito, lanciandogli soltanto un breve "Mani in alto!" poi
raggiungiamo l’albergo. Ci cacciamo dentro ad una porta aperta. Nell’oltrepassare
la soglia, vedo una stazione trasmittente e un soldato italiano occupato
a trasmettere dei messaggi. Con un violento colpo di piede faccio proiettare
la sua sedia, mentre col calcio del fucile mitragliatore spacco l’apparecchio.
Ma constatiamo subito che nessuna porta mette in comunicazione questa stanza
col resto dell’albergo. Dunque dietro-front. Eccoci di nuovo fuori. Correndo
lungo il fabbricato, giriamo l’angolo e arriviamo davanti ad una terrazza,
alta da terra circa tre metri. Un mio ufficiale mi fa da scala, gli salto
sulle spalle e scavalco la balaustra. Gli altri mi seguono.
Con lo sguardo frugo tutta la facciata. A una finestra
del primo piano, vedo una testa massiccia, caratteristica: Il Duce! Ora
so che la operazione riuscirà. Gli grido di ritirarsi, poi ci precipitiamo
verso l’entrata principale. La ci urtiamo contro alcuni carabinieri, che
cercano di uscire. Due mitragliatrici sono in posizione: le rovesciamo.
Penetro nella hall. Per il momento sono solo e,
dall’altra parte, non so cosa stia accadendo alle mie spalle: non ho nemmeno
il tempo di guardarmi indietro. Alla mia destra c’è una scala, che
salgo a quattro gradini per volta. Arrivo al primo piano, mi lancio per
un corridoio, apro a caso una porta: è quella buona! Nella stanza
c’è Benito Mussolini e ci sono due ufficiali italiani, che spingo
rapidamente contro il muro. Intanto il tenente Schwedt mi ha raggiunto.
Rendendosi conto immediatamente della situazione, egli fa uscire i due
ufficiali, che sono evidentemente troppo sorpresi per pensare a far resistenza.
Appena li ha messi fuori, richiude tranquillamente la porta. La prima parte
del nostro raid è riuscita: per il momento almeno il Duce è
nelle nostre mani. Dal nostro atterraggio tre, o al massimo quattro minuti
sono passati. In lontananza si sentono spari isolati che partono, certo,
dai posti di guardia italiani sparsi sull’altura. Grido ancora qualche
ordine ai miei uomini ammassati davanti all’albergo poi ho finalmente il
tempo di volgermi verso Mussolini, che, protetto dalle spalle massicce
del tenente Schwert sta diritto in un angolo. Mi presento:
- Duce, il Fuhrer mi ha mandato a liberarvi.
Visibilmente commosso, egli mi abbraccia.
- Sapevo - dice - che il mio amico Hitler non mi
avrebbe abbandonato! >>
MUSSOLINI IN GERMANIA
Cosa accadde soprattutto nelle coscienze degli italiani
con la notizia della liberazione di Mussolini è difficile ricostruirlo.
Mi sforzerò di rendere con la più scrupolosa obiettività
e con la maggiore precisione possibile la cronaca degli avvenimenti di
quei giorni incandescenti e di quelli che seguirono.
Quel che può riuscire di un certo interesse
per il lettore di oggi e di domani è sapere quali furono le reazioni
alla nuova svolta degli avvenimenti che il sensazionale ritorno di Mussolini
sulla scena politica del nostro paese, fatalmente comportava.
Dopo il colpo di stato del 25 luglio 1943, di Mussolini
non s’era sentito più parlare. In larghi tratti dell’opinione pubblica
si era accreditata la convinzione che il dittatore italiano fosse stato
soppresso o quanto meno consegnato agli alleati che lo custodivano in chissà
quale sperduto nascondiglio.
Nel bailamme delle trasmissioni radio che nei giorni
seguenti la resa italiana dell’8 settembre s’incrociavano nell’etere, trovarono
in noi scarsa eco le trasmissioni di una radio clandestina che dopo le
note di "Giovinezza" parlava come emanazione di un governo fascista
"operante nel nome di Mussolini
La voce - come si seppe più tardi - era quella
di Alessandro Pavolini, ex ministro per la cultura popolare , che con alcuni
giornalisti , fra cui Cesare Rivelli, Preziosi, Verdirame, Spampanato,
Profili ed altri, avevano raggiunto il Quartier Generale di Hitler da dove,
attraverso Radio Monaco, parlavano agli italiani nel tentativo di riannodare
la fila di una unità politica che gli avvenimenti del 25 luglio
e dell’8 settembre avevano lacerata in mille pezzi. Alla notizia che Mussolini
era stato liberato non credette nessuno. I più pensarono ad una
trovata della propaganda tedesca. Confesso che anch’io, sebbene fosse per
me una notizia tale da accettare senza riserve, ebbi lì per lì
qualche esitazione. Forse perché era troppo bella per esser vera;
mi attaccai al telefono nel prepotente bisogno di avere una conferma. I
pochi camerati che mi fu possibile rintracciare ne sapevano quanto me.
Passai da Aragno, il caffè ch’era sempre
stato il salotto politico della Capitale e vi trovai un gran fermento.
Il colpo di mano del Gran Sasso era sulla bocca di tutti. Naturalmente
quelli cui il solo pensiero che Mussolini potesse essere tornato in circolazione
dava fastidio, erano i più accesi negatori: - E’ una balla della
propaganda tedesca ! - non facevano che ripetere. Ad altri lo sgomento
aveva addirittura paralizzato la lingua, mentre quelli che la pensavano
alla mia stessa maniera, ghignavano di compiacimento. Più tardi
ogni dubbio fu dissipato con il lancio di manifestini da aerei tedeschi
"Il Duce è stato liberato" cui fece seguito la diffusione
e l’affissione di un altro manifesto di iniziativa fascista : "Il
Duce è con noi ! Viva il Duce !".
A piazza Colonna, sotto il palazzo che fino al 25
luglio era stato la sede del Partito Nazionale Fascista, c’era un assembramento
insolito e si aveva la sensazione che da un momento all’altro si dovessero
riaprire i battenti e sul balcone veder riapparire le nere insegne del
Fascismo. Gruppi di carabinieri ammassati nei portoni della piazza guardavano
stupiti. Due giovani animosi avevano anticipato gli eventi ostentando sotto
la giacca la camicia nera: erano le prime che rivedevo dopo tanti tragici
eventi e tutto nella piazza aveva un qualcosa di fantastico, di irreale.
C’era nell’aria un senso greve di aspettazione, ma non accadde nulla. Il
portone rimase chiuso ed al balcone non apparve nessuno.
* * *
Mussolini dal Gran Sasso, con una "Cicogna",
venne trasferito al campo d’aviazione di Pratica di Mare e sempre in aereo
a Vienna e Monaco e quindi al Quartier Generale di Hitler. Qui, nella giornata
del 14 settembre, si svolsero due importanti colloqui e vennero tracciate
le linee generali della ripresa del fascismo in Italia. Su questi colloqui
tra Mussolini e Hitler si sono fatte per anni molte illazioni in base agli
sviluppi successivi della situazione del nostro Paese, ma la verità
è che nessuno era presente e i due protagonisti, non avendone esplicitamente
riferito, hanno portato nella tomba il segreto delle loro intese. Abbiamo
solo due confidenze che ci danno altresì l’argomento dei due colloqui,
riferite rispettivamente da Goebbels per Hitler nel suo libro "Diario
intimo" e da Carlo Silvestri per quelle a lui fatte da Mussolini nel
1945. Entrambi sono d’accordo nel riferire il furore del dittatore germanico
contro i traditori del Gran Consiglio nei confronti dei quali esigeva la
condanna a morte come primo atto del nuovo governo repubblicano e particolarmente
di Ciano quattro volte traditore: "Traditore della Patria, traditore
del fascismo, traditore dell’alleanza con la Germania, traditore della
famiglia". Alle esitazioni di Mussolini, Hitler replicò secco:
"Se voi mi deludete, io devo dare ordine che il piano punitivo predisposto
contro l’Italia sia eseguito".
Il ritorno di Mussolini sulla scena politica italiana,
pur essendo nato da un dilemma molto esplicito posto dal suo liberatore,
ebbe una pregiudiziale costante e cioè riportare gli italiani al
combattimento: "se vogliamo vivere dobbiamo combattere: è l’unico
modo di arrivare alla fine della guerra salvando la Nazione"... "
c’è per noi italiani una sola possibilità di salvezza in
questo momento: ritornare a combattere".
Dopo questi incontri con Hitler, Mussolini ricevette
il gruppo di giornalisti capeggiati da Pavolini e Rivelli. Furono i primi
fascisti che Mussolini rivide dopo la prigionia e ai quali raccontò
le sue vicissitudini concludendo "Ed ora, camerati, si ricomincia".
Il collega Spampanato mi raccontò poi che
Mussolini apparve loro estremamente pallido e dimagrito. Soprattutto le
sofferenze morali avevano inciso sul suo volto - quel volto dei tempi aurei
a noi tanto caro e familiare - i segni profondi di una grande stanchezza.
Indossava uno sciatto abito scuro a righe bianche che sembrava appeso ad
un attaccapanni tanto gli stava largo e una camicia larghissima di collo
che gli conferiva un’aria ben triste e dimessa. Parlava a fatica e anche
la voce non aveva il timbro tagliente, metallico che tutti conoscevamo.
RESURREZIONE DEL FASCISMO
Il giorno 15 segnò storicamente la resurrezione
di Mussolini e del Fascismo allorquando Radio e giornali diffusero al mondo
il seguente "Foglio d’ordine del Regime n. 1": "Ai camerati
fedeli di tutta Italia - riprendo oggi 15 settembre 1943 anno XXI la direzione
suprema del Fascismo in Italia - Mussolini". Seguirono altri ordini
con i quali Pavolini e Renato Ricci - il famoso capo della gioventù
Fascista - venivano nominati rispettivamente Segretario del Partito Fascista
Repubblicano e Comandante in Capo della Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale, mentre un altro comunicato ordinava a tutte le autorità
militari e civili di riprendere immediatamente i loro posti.
Dopo una breve permanenza al Quartier Generale Germanico,
Mussolini si trasferì a Monaco di Baviera diventata una specie di
Quartier Generale Fascista, giacchè qui erano stati trasferiti dalle
regie galere italiane un gruppo di fascisti liberati a Roma dai tedeschi
e da qui partiva tutta la propaganda radiofonica del neo-fascismo.
A Roma intanto, sotto la spinta degli avvenimenti
politici e militari, la situazione aveva cambiato volto radicalmente. Gli
antifascisti che avevano imperversato nei quarantacinque giorni badogliardi,
come è già stato accennato, stimarono urgente e prudente
chiudersi nelle sacrestie e particolarmente nei palazzi vaticani che godevano
del privilegio della extra-territorialità. I fascisti che dopo il
rovesciamento del Regime avevano subito violenze, vagheggiavano vendette
e nelle more di una disciplina che durava fatica a ristabilirsi, qualche
sberla è volata, ma niente di più. La situazione Italiana,
vista obiettivamente e cioè senza passione di parte, si presentava
estremamente grave: gli alleati avevano già occupato la Sicilia
e risalivano la penisola dalla punta dello stivale. Con lo sbarco di Salerno
si combatteva a Battipaglia e il destino di Napoli era segnato. Con la
dissoluzione del nostro Esercito i tedeschi erano i soli a sostenere lo
sforzo bellico dei fronti italiani. Le restrizioni della guerra e i bombardamenti
massicci e indiscriminati dell’aviazione anglo-americana agivano sempre
più negativamente sul morale degli italiani e ponevano il problema
della "ripresa" fascista in termini estremamente ardui e drammatici.
Di queste cose noi fascisti eravamo ben consapevoli
e fu il tema principale delle conversazioni con Pavolini quando, spedito
a Roma per la formazione del Governo Fascista Repubblicano, riaprendo la
sede di Piazza Colonna, ci sottolineò il pensiero dominante di Mussolini
e cioè che tutto sarebbe stato vano se gli Italiani non avessero
ripreso il combattimento a fianco dell’alleato tedesco.
LA MORTE DI CAVALLERO
Nel quadro di quei tremendi giorni che seguirono
l’8 settembre, si inserisce il tragico episodio che, per la personalità
del protagonista e per il mistero in cui è stato sempre avvolto,
merita di essere rievocato: la morte dell’ex Capo di Stato Maggiore Generale
Maresciallo Cavallero avvenuta la notte dal 13 al 14 settembre 1943 presso
il Comando Supremo Tedesco in Italia a Frascati.
Cavallero aveva sostituito Badoglio alla direzione
della guerra del 1941 e questo, per un temperamento rancoroso e vendicativo
come quello di Badoglio, era un motivo più che sufficiente per odiare
a morte il nuovo Capo di S.M.G. Difatti la sera stessa del 25 luglio, appena
il Maresciallo dalla faccia sinistra ebbe ricevuto l’incarico di procedere
alla formazione del nuovo governo, il suo primo pensiero fu quello di far
arrestare Cavallero tanto che questi, ignorando ancora ciò che era
accaduto in Gran Consiglio e le decisioni del re, pensò che il provvedimento
fosse iniziativa di Mussolini. Com’è noto Cavallero era in disgrazia
ed era stato sostituito a sua volta nella suprema carica militare dal generale
Ambrosio.
Rinchiuso con altri esponenti militari e politici
nel Forte Boccea a Roma, quando Cavallero seppe da che parte veniva l’ordine
del suo arresto, scrisse un "Memoriale" difensivo a Badoglio
nel quale rivendicava la benemerenza di essere antitedesco e un precursore
del colpo di stato citando episodi e circostanze veramente sconcertanti.
Con questo "Memoriale" Cavallero, prima ancora che con un colpo
di pistola, si era suicidato. L’improvviso colpo di scena dell’8 settembre
e la fuga del re e dei suoi accoliti che determinarono un nuovo rovesciamento
di situazione in Italia, gettarono il Maresciallo Cavallero nella più
nera costernazione. La mattina del 13 settembre, unitamente ad altri prigionieri,
venne liberato dai tedeschi e condotto all’Ambasciata germanica. Qui Cavallero
vede il Maresciallo Caviglia e, secondo quanto riferisce Graziani che con
Caviglia s’era incontrato nella rappresentanza diplomatica tedesca, gli
si avvicina terrorizzato e dice : "Caviglia, io sarò sicuramente
fucilato, non so dove e quando, ma certamente!" Mentre le altre personalità
liberate partono per la Germania, Cavallero viene condotto a Frascati presso
il Comando tedesco installato in una villa secentesca da anni adibita ad
albergo con il nome di Park Hotel.
Su questo tragico episodio, sono state scritte molte
inesattezze e altrettante supposizioni sono state fatte sull’interrogativo:
suicidio o assassinio ? Prima della guerra, durante l’estate, io avevo
soggiornato lungamente e a più riprese al Park Hotel. Conoscevo
quindi benissimo il luogo e i gestori dell’albergo signori Girani che il
comando tedesco aveva conservati al loro posto quando requisirono l’albergo.
Volli condurre personalmente un’inchiesta per sapere come erano andate
le cose e sono oggi in grado di riferirle con la massima obiettività
e precisione.
Dall’Ambasciata tedesca a Roma, Cavallero venne
condotto a Frascati scortato personalmente dal colonnello delle SS Dolmann
e da alcuni militi e poiché, a quanto aveva detto il colonnello
ai signori Girani, il maresciallo Cavallero era ospite del maresciallo
Kesserling, gli venne assegnata la camera n. 35. Kesserling dormiva e consumava
i pasti al Park Hotel, ma il suo studio era a villa Fumasoni più
a nord verso l’abitato di frascati.
Fu qui che Cavallero ebbe il suo lungo e fatale
colloquio con il maresciallo tedesco presso il quale venne accompagnato
sempre da Dolmann e sempre sotto scorta per cui apparve subito chiaro che
non si trattava di una scorta d’onore dovuta al suo alto grado ma di sorveglianza
pura e semplice. Da questo colloquio Cavallero uscì sconvolto più
di quando non lo fosse entrando presago che il suo "Memoriale",
lasciato da Badoglio al Viminale, fosse stato già ritrovato e fin
dalla stessa sera dell’8 settembre, quando i tedeschi occuparono tutti
i Ministeri.
Si è scritto che nel colloquio Kesserling
aveva proposto a Cavallero di assumere il comando di tutte le forze armate
italiane per continuare la guerra a fianco della Germania. Ma la versione
è palesemente di copertura dei veri motivi: primo perché
Kesserling non aveva facoltà di simili investiture, secondo perché
essendo Cavallero già silurato come Comandante Supremo, era il meno
qualificato per ricostruire e galvanizzare un esercito nelle tremende circostanze
in cui erano venute a trovarsi le nostre Forze Armate e cioè totalmente
dissolte, terzo perché al Quartier Generale di Hitler non avevano
nessuna stima né di Cavallero né dell’Esercito Italiano al
punto di manifestare chiaramente questa loro ostilità anche con
le Forze Armate della Repubblica Sociale sebbene a capo di esse vi fosse
un uomo di grande prestigio e di grande fascino come Graziani. Fra l’altro
Mussolini, che doveva essere almeno sentito su questo argomento, quel giorno
13 settembre 1943 non aveva ancora visto Hitler.
Cavallero non toccò cibo tutto il giorno.
Il suo posto a tavola rimase vuoto. Non salì più in camera
e sedette su una poltroncina di legno in giardino sotto una grande quercia
assolutamente solo, tormentato dai suoi pensieri. Alle quattro del mattino
la signora Girani viene svegliata di soprassalto da un colpo di pistola
ed ha il presentimento che sia accaduto qualcosa. Il marito la rassicura
giacchè di spari in quei giorni incandescenti se ne sentivano a
tutte le ore. Poco dopo arriva trafelato il facchino dell’albergo che,
richiamato anch’egli dallo sparo, era andato in giro a curiosare e avverte
che ha trovato in giardino il maresciallo Cavallero morto. Il signor Girani
scende di corsa e vede l’ex Capo di Stato Maggiore Generale seduto col
braccio destro ciondoloni fuori dal bracciolo della poltroncina, il capo
reclinato in avanti con un filo di sangue che esce non dalla tempia destra,
ma dalla regione parietale destra dietro l’orecchio. In terra l’arma dalla
quale era partito il colpo:
Tra lo sparo e la constatazione del facchino era
passata forse un’ora. Nessun tedesco s’era mosso o aveva dato l’allarme.
Nessuno era accorso. E dire che quello era il Comando Supremo dell’Esercito
tedesco in Italia con a capo un maresciallo le cui finestre davano, come
quelle di tutti gli altri ospiti, sul giardino. Nessuno aveva sentito!
Quello che sorprese il signor Girani fu viceversa il fulmineo arrivo da
Roma di Dolmann con un camion e un reparto di SS. All’obiezione del signor
Girani che secondo la legge italiana sarebbe stato necessario avvertire
il Pretore di Frascati per le constatazioni di legge, il Dolmann, che parlava
perfettamente l’italiano, rispose secco: "Il Pretore sono io !>>
e diede disposizioni ai suoi uomini perché la salma dell’uomo che
aveva comandato in guerra milioni di soldati, venisse caricata sul camion
come una carogna qualsiasi. La signora Girani corse a prendere un lenzuolo
e il marito una bandiera nella quale il maresciallo Cavallero potè
essere avvolto per il suo trasporto verso l’ospedale militare del Celio.
Delitto o suicidio? Il figlio del maresciallo arrivando
a Frascati, dichiarò subito: <<Escludo assolutamente il suicidio
poiché mio padre era profondamente religioso e non avrebbe mai fatto
una cosa simile!>> Tuttavia la tesi del suicidio è la più
valida. Solo Dolmann poteva dire con esattezza come erano andate le cose,
ma nel suo libro si guarda bene dal farlo. Certi fatti hanno talvolta una
logica che vale quanto una confessione. Logica suffragata, oltre che da
elementi probatori, dal malcelato imbarazzo e dalle caute indiscrezioni
di taluni dei numerosi ufficiali ospiti del Park Hotel. E basterebbe solo
considerare che Cavallero, proveniente dal carcere militare, era necessariamente
disarmato per concludere che l’arma gli venne fornita dai tedeschi con
l’esplicito invito a servirsene contro se stesso. Ciò per impedire
un inevitabile, disonorevole processo in conseguenza del "Memoriale"
scritto a Badoglio in cui fra l’altro Cavallero confessava che l’industriale
cartario Burgo gli aveva messo a disposizione cento milioni per la eliminazione
di Mussolini.
In ogni caso quindi Cavallero sarebbe finito dinanzi
al plotone d’esecuzione come ci finirono i membri catiliniani del Gran
Consiglio. I tedeschi, confermandogli che la sua posizione era senza vie
d’uscita, non ebbero alcun bisogno di commettere un delitto. Fecero come
avevano fatto con il maresciallo Rommel: lo invitarono semplicemente a
cacciarsi una palla nella testa.
MUSSOLINI PARLA AGLI ITALIANI
Mussolini parlò agli italiani da Radio Monaco,
il 18 settembre. Il Lettore può immaginare con quale ansia noi fascisti
ci accingemmo ad ascoltare la voce del nostro Capo dopo la parentesi del
25 luglio - 12 settembre 1943 in cui di Mussolini non s’era più
sentito parlare e le previsioni più nere sulla sua sorte erano tutt’altro
che ingiustificate. Non ricordo di aver vissuto attimi di maggiore tensione.
Ricordo che aprimmo la radio una buona mezz’ora prima e tutti i miei ragazzi
erano lì con gli occhi fissi all’apparecchio come se da un momento
all’altro dovesse apparire la figura stessa del nostro Capo ( allora la
televisione non c’era ! ). Finalmente l’altoparlante echeggiò: "Camicie
Nere. Italiani e italiane! Dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi
giunge la mia voce e sono sicuro che voi la riconoscete; è la voce
che vi ha chiamato a raccolta in momenti difficili e ha celebrato con voi
le giornate trionfali della Patria".
Per debito di lealtà debbo qui riferire che
nessuno riconobbe nella voce di chi parlava quella di Mussolini, di quel
Mussolini almeno che ci aveva chiamati a raccolta nelle memorabili adunate
che precedettero e conclusero la conquista dell’Impero e che il 10 giugno
1940 aveva reciso i nodi gordiani degli egoismi democratici portando l’Italia
al combattimento a fianco della Germania. Il timbro della voce, la cadenza
incisiva della parola, le pause che caratterizzavano in modo inconfondibile
l’oratoria mussoliniana, non avevano alcuna similitudine con quella voce
che ci giungeva da Monaco. Questo fatto rimise in circolazione la storia
che colui che parlava non era Mussolini, morto da tempo, e che tutto era
frutto della propaganda tedesca. Naturalmente questa diceria veniva subito
smentita dalle fotografie della liberazione dalla prigione del Gran Sasso
e dell’incontro con Hitler in Germania che la stampa aveva intanto diffuso.
A noi fascisti la voce diede con dolore la misura delle sofferenze patite
dal nostro Capo in conseguenza del colpo di stato del 25 luglio.
Nel lungo discorso, in cui Mussolini aveva rifatto
la storia della sua incredibile avventura, fissò i concetti fondamentali
della ripresa riassunti nei seguenti punti:
1.Riprendere le armi a fianco della Germania, del
Giappone e degli altri alleati. Solo il sangue può cancellare una
pagina così obbrobriosa nella storia della Patria.
2.Preparare senza indugio la riorganizzazione delle
nostre forze armate attorno alle formazioni della Milizia. Solo chi è
animato da una fede e combatte per un’idea non misura l’entità dei
sacrifici.
3.Eliminare i traditori; in particolar modo quelli
che sino alle 21,30 del 25 luglio, militavano, talora da parecchi anni,
nelle file del nemico.
4.Annientare le plutocrazie parassitarie e fare
del lavoro finalmente il soggetto dell’economia e la base infrangibile
dello Stato.
Mussolini conclude dicendo: "Camicie Nere fedeli
di tutta Italia, io vi chiamo nuovamente al lavoro e alle armi".
Di fedeli a rispondere all’appello fummo invero
pochi in rapporto ai milioni di iscritti che il Partito Nazionale Fascista
contava ed ai consensi totali, incondizionati che tutti i ceti sociali,
compresi i più umili, non avevano mai lesinato al Regime cogliendo
tutte le occasioni per spellarsi le mani sotto i balconi di tutta Italia
e particolarmente sotto quello di Piazza Venezia a Roma.
Gli Italiani diedero ancora una volta prova della
loro assoluta mancanza di carattere e particolarmente quelli per i quali
era diventato impellente il desiderio e la necessità di farsi perdonare
dai nuovi padroni i trascorsi fascisti. Anzi, questi si dimostrarono poi
i più spietati poi nelle epurazioni e durante la guerra civile.
Lungi da me l’idea di voler criticare il mio Capo
che è stato e resterà l’unica persona al mondo cui ho obbedito
senza discutere, ma penso che sarebbe sciocco fanatismo non ammettere che
egli si era ingannato sulle qualità degli Italiani presi nel loro
insieme. Poco più di cinquanta anni di unità nazionale (
1870 - 1922 ) dopo secoli, anzi dopo quasi due millenni di servilismo,
di dominazioni e di vessazioni straniere, erano troppo pochi per pretendere
una saldezza di principi ed una ferrea coscienza nazionale. Con i continui
riferimenti e la rimessa in valore delle vestigia e delle tradizioni romane,
Mussolini aveva tentato di risvegliare negli Italiani l’orgoglio per le
proprie origini e stimolarli a riprendere il solco luminoso della passata
grandezza. Salvo una esigua minoranza , gli italiani se ne infischiarono
allegramente e consideravano gli sforzi di Mussolini null’altro che un
romanticismo archeologico. Mussolini del resto sapeva perfettamente di
che pasta fossero i suoi simili e ce lo dice nel "Preludio" al
"Principe" di Macchiavelli quando, commentando il giudizio negativo
del grande segretario fiorentino sugli uomini in genere e sugli italiani
in particolare scrive: "se mi fosse lecito giudicare i miei simili
e contemporanei , io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di
Macchiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo>>. Nei momenti di amarezza
e di sfiducia Mussolini dirà ancora: <<Con questa creta lo
stesso Michelangelo non avrebbe potuto fare che delle pignatte" per
arrivare alla feroce invettiva sfuggitagli di bocca dopo la crudele esperienza
dei quarantacinque giorni badogliardi: "carogna di un colosso morto
1700 anni or sono".
Un ventennio nella storia di un popolo è
niente; e ancor meno lo è per trasformarne il costume e il carattere.
Tuttavia bisogna dare atto che i giovani e i giovanissimi nati e cresciuti
nel clima ardente del Fascismo, avevano risposto magnificamente alla prova
suprema del fuoco durante la guerra di Spagna e negli anni dal 1940 al
1943. Chi crollò completamente fu la classe dirigente della vecchia
Italia, con le sue caste militari, sociali e soprattutto economiche, sopravvissuti
ai superficiali tentativi di "fascistizzazione".
Quella classe dirigente alla quale la Rivoluzione
Fascista del 28 ottobre 1922 aveva presentato le armi anziché spazzarla
via con un deciso colpo di ramazza, specie nel settore militare che diede
poi la più alta percentuale di traditori. Ma Mussolini, contrariamente
a quanto i suoi avversari vogliono far apparire, non fu un Dittatore. Egli
era piuttosto un impulsivo che portava nelle sue azioni l’ardente spirito
della sua Romagna, ma era costituzionalmente incapace di odiare. Latino
fin nelle più intime làtebre, gli mancò la teutonica
freddezza di Hitler che determinò "la notte dei lunghi coltelli"
e la cinica spregiudicatezza slava di Stalin che dopo la soppressione integrale
del "nemico di classe” instaurò il regime delle "purghe"
anche tra gli stessi compagni di fede. Ma questo discorso su quello che
poteva essere e non fu, ci porterebbe troppo lontano mentre la storia registra
solo i fatti e trascura le ipotesi.
CREPUSCOLO DI SANGUE Autore: Pietro Caporilli Edizioni ARDITA
di Roma 1963.